Home > Le interviste > Ottobre 2007: intervista di Simone di Meo del “Il Tempo”

Ottobre 2007: intervista di Simone di Meo del “Il Tempo”

Pubblicato su “Il Tempo” il 1° ottobre 2007

 

DI Simone Di Meo

“Il mio è un delitto di Stato. La gente deve sapere che qui, in galera, c’è un uomo condannato a morte dalle istituzioni italiane”. Bruno Contrada ha lo stesso volto affilato del giovane sbirro che fu, instancabile cacciatore di mafiosi nella Palermo di Boris Giuliano, Ninni Cassarà, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Solo che ora ha 76 anni e se è vero, come predicano alcune filosofie orientali, che l’età di un uomo non è quella trascorsa, ma quella che ancora gli resta, allora Contrada deve sperare che gliene resti un altro po’ per arrivare almeno a 83, perché solo a quel tempo potrà uscire dal carcere ( “Dove hanno confinato una persona innocente” ) e respirare di nuovo l’aria libera degli uomini liberi.

Dottor Contrada, perché proprio lei?

“Perché hanno voluto dimostrare che la lotta alla criminalità organizzata, prima del loro arrivo, in realtà era connivenza, contaminazione dei rapporti. Mi hanno sguinzagliato contro personaggi abbietti, un manipolo di pentiti che ha riscontrato più credito di 140 testimoni a difesa: uomini dello Stato, vertici della Polizia di Stato e dei Servizi segreti, tutte persone che nutrivano e nutrono per me la massima stima. E sa che cosa è successo quando, davanti ai giudici hanno giurato che Bruno Contrada era innocente? Sono stati accusati di falso. La mia sentenza era già stata scritta. Avrebbero avuto da dubitare pure se Gesù Cristo fosse sceso dalla croce e fosse venuto in tribunale”.

Chi era Bruno Contrada al momento dell’arresto, il 24 dicembre 1992?

“Ero al Sisde, il Servizio segreto civile, ma non mi occupavo più di attività operativa bensì solo di quella informativa. Qualche settimana fa, è venuto a trovarmi un collega, che mi ha ricordato di quando lo aiutai ad arrestare un pericoloso camorrista latitante del Casertano. Sapevamo che sarebbe passato in auto per Capua e avvisammo la polizia. Io me n’ero dimenticato, mi ha aiutato lui a far affiorare alla memoria quell’episodio. E quello era il mio lavoro: un lavoro informativo di supporto all’attività di polizia giudiziaria. Non so chi è convinto che io custodisca chissà quali segreti, quali verità inconfessabili. In realtà, io non ho nulla da nascondere, né nessuno da proteggere”.

Subito dopo l’arresto, Contrada subisce una detenzione cautelare di circa 31 mesi, che si protrae anche dopo l’inizio del processo: ai primi pentiti – che hanno firmato le accuse contro di lui – se ne aggiungono altri nel corso degli anni, ma sono loro – Gaspare Mutolo, Tommaso Buscetta, Giuseppe Marchese e Rosario Spatola – a fornire mattoni e cemento alla magistratura per tirare su il castello accusatorio. Contrada si è scagliato furiosamente contro le loro ricostruzioni, contestando punto per punto dichiarazioni che farebbero ridere, se non avessero provocato lacrime e disperazione.

GASPARE MUTOLO – ‘O saittuni (il “topo di fogna” in dialetto palermitano) racconta che la mafia aveva speso quindici milioni per acquistare un’Alfa Romeo da consegnare a Contrada, il quale – a sua volta – avrebbe dovuto regalarla a una sua amica. Dai controlli al registro automobilistico di quegli anni, nessuna donna – proprietaria o intestataria di un’Alfa Romeo – portava direttamente o indirettamente a Contrada. Inoltre, Mutolo ha aggiunto che durante la guerra di mafia scatenata dai Corleonesi contro le vecchie famiglie palermitane per impadronirsi del potere all’interno di Cosa Nostra, Contrada avrebbe incontrato i capi delle fazioni avversarie per assicurare favori agli uni e agli altri. Sostiene Contrada: “Nessun poliziotto in quegli anni avrebbe potuto essere amico e rendere favori contemporaneamente a diversi capi-mafia, perché un tale comportamento avrebbe significato sicuramente farsi ammazzare, in quanto le famiglie di mafia in lotta tra loro si cercavano a vicenda per attirarsi in tranelli ed agguati e per uccidersi. Sarebbe stato impossibile non rimanerne coinvolti”.

TOMMASO BUSCETTA – Don Masino parla del rapporto di amicizia tra Bruno Contrada e Rosario Riccobono, aggiungendo che glielo aveva confermato un altro boss siciliano, Stefano Bontate. La controprova non c’è, visto che entrambi – sia Riccobono che Bontate – sono stati ammazzati dai Corleonesi.

GIUSEPPE MARCHESE – Riferisce che Contrada aveva informato Totò Riina di un blitz che la polizia stava organizzando nel covo dove si nascondeva. Sostiene Contrada: “In un interrogatorio precedente, lo stesso Marchese aveva dichiarato che Riina per motivi di sicurezza legati ai conflitti tra clan mafiosi, si era trasferito dalla villa di borgo Molara a S. Giuseppe Iato. Per sfuggire ai mafiosi, dunque, e non alla Polizia”.

ROSARIO SPATOLA – E’ l’autore della testimonianza “più fantasiosa di tutte” : ricorda di aver visto Contrada, allora capo della squadra mobile, a pranzo con il mafioso Rosario Riccobono nella saletta del ristorante “Il Delfino” a Sferracavallo, una località vicino a Palermo. Quando gli fu fatto notare che in quel locale la saletta riservata non c’era mai stata, Spatola corresse il tiro e giurò di averli visti mangiare in un angolo appartato, su una pedana sopraelevata rispetto alla sala, vicino all’ingresso della toilette. Sostiene Contrada: “Come è possibile immaginare che un poliziotto molto conosciuto nella zona, come lo ero io, ed un capomafia altrettanto noto, potessero essere seduti su una specie di palcoscenico, e per giunta tra le due porte di accesso ai servizi igienici, davanti a tutti gli altri clienti del ristorante?”.

Dottor Contrada, eppure con la pronuncia della Corte di Cassazione, le versioni dei pentiti sono diventate verità storiche.

“Non sono verità storiche, né processuali. Ho rispetto della Corte di Cassazione, ma non credo che sia il Padreterno in terra. Io sono innocente e dovrò trascorrere da innocente altri sette anni in carcere, oltre a quelli che ho già patito. Eppure, non piango per ottenere gli arresti domiciliari, anche se sto male. Affronto la mia vicenda a testa alta, sanguinante, ma alta. Non pesto i piedi a terra, né imploro di tornare a casa, come farebbe un giovane soldato di leva alla prova del servizio militare”.

La vicenda processuale di Bruno Contrada conta cinque sentenze discordanti, nessuna delle quali è riuscita a stabilire perché l’ex 007 avrebbe stretto un patto scellerato con le cosche mafiose: manca il movente. Non per fini personali (perché le indagini patrimoniali non hanno accertato alcun tesoro nascosto), né per fini ideologici (perché la storia professionale di Contrada dimostra l’instancabile azione di prevenzione e repressione del fenomeno mafioso, in tutte le sue manifestazioni: dal riciclaggio, al traffico di armi, dalla droga al racket, dagli appalti agli omicidi). Allora: perché i tagliagole di Cosa nostra che hanno accusato Contrada sono stati considerati più attendibili dei servitori dello Stato che lo hanno difeso? Perché i riscontri alle dichiarazioni dei pentiti sono stati fatti in maniera così superficiale? Che cosa c’è dietro il “ragionevole dubbio” che, a fasi alterne, ne decreta l’assoluzione in Appello e poi – in successione – una nuova condanna di secondo grado e la conferma in Cassazione? Qual è il residuo senso delle istituzioni che impedisce a Contrada di fare i nomi di quelli che avrebbero potuto difenderlo e non l’hanno fatto, di quelli che l’hanno pugnalato alle spalle, di quelli che lo hanno confinato in una cella del carcere militare di Santa Maria Capua Vetere? Che cosa sa Contrada della guerra sotterranea, senza esclusione di colpi, tra Sisde e Dia negli anni di Tangentopoli e per conquistare quale potere? Tutta la storia processuale di Bruno Contrada è popolata di fantasmi. I fantasmi di sbirri e di mafiosi, che lo accusano dall’Ade tramite le parole dei collaboratori di giustizia, assassini diventati d’un tratto sensitivi. Perché c’è anche questo, nell’inchiesta che lo ha portato in galera: Giovanni Falcone che appare in sogno a una donna per confidarle i suoi dubbi sulla lealtà di Contrada. L’unico fantasma che non si arrende è lui. A settantasei anni.