Edizione 169 del 01-08-2006
L’intervista – Parla Bruno Contrada. Un funzionario dello Stato condannato dal suo datore di lavoro – di Rosamaria Gunnella
Se Pirandello fosse ancora vivo la lunga, travagliata, paradossale vicenda di Bruno Contrada potrebbe sicuramente essere il soggetto di una grande opera del drammaturgo agrigentino. A quattordici anni dal suo arresto e dopo due lunghi processi conclusisi con una condanna a 10 anni, sull’ex funzionario del Sisde è calato il “silenzio”. I mass media che nel processo di primo grado erano avidi di notizie, come ricorda il difensore di Contrada, l’Avv. Pietro Milio, ora sembrano del tutto indifferenti e disinteressati al destino di quest’uomo. Un silenzio tanto improvviso quanto sospetto. In una domenica di questa torrida estate palermitana abbiamo incontrato il dott. Contrada per tentare di capire, in attesa della motivazione della sentenza che dovrebbe uscire a fine agosto, il dramma umano e giudiziario di un funzionario dello Stato, condannato dallo stesso Stato che ha servito per lunghi anni. Un controsenso? Eppure è successo. Ma allora dov’è la verità?
“Dott. Contrada, lei si ritiene vittima del ‘sistema’. Perché proprio lei?”
“Le rispondo con un’altra domanda: perché sono stato scelto io dal ‘mazzo’?. Ero un alto funzionario dei Servizi di sicurezza in Italia, e non un “agente segreto”, dirigente superiore e poi generale della Polizia di Stato, distaccato presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Sisde, e dopo essere stato Capo della Squadra Mobile a Palermo, capo della Criminalpol e capo di Gabinetto dell’Alto Commissario per la lotta contro la mafia, sicuramente ero conosciuto da tutti!”.
“Allora è il suo “curriculum” che lo ha portato ad essere un “bersaglio” ed essere accusato ? “
“Quando hanno voluto implicare i Servizi del Governo Italiano nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio, (siamo nel 1992 e presidente del Consiglio era Giulio Andreotti), non gli bastava la responsabilità della mafia; non potevano accontentarsi che Falcone e Borsellino fossero stati uccisi da quattro manigoldi, volgarissimi delinquenti analfabeti: doveva esserci la mano dello Stato in quelle stragi. E lo Stato attraverso chi? Non certo il Ministero della Pubblica Istruzione o della Sanità o dei Beni Culturali, meglio ovviamente il Ministero degli Interni e più precisamente i Servizi Segreti che, quando si vuole ammantare di mistero una vicenda, vengono sempre tirati in ballo. E chi in quel momento impersonava il Sisde in Sicilia? E chi conosceva l’ambiente mafioso avendo operato contro la mafia? Il Dott. Bruno Contrada, il nome più conosciuto e prestigioso.”
“Ma dopo tutti questi anni e i processi, che senso avrebbe questo accanimento nei suoi confronti ?”
“Semplicemente perché non possono ammettere di aver sbagliato, e adesso devono persistere. Non possono smentirsi a qualsiasi costo. Io per loro devo morire in carcere, perché devono dire che avevano ragione.”
“Dott. Contrada però sono molti i “pentiti”, fra cui Francesco Di Carlo, che l’accusano “
“Questo, che io definisco un manigoldo, un pendaglio da forca, entra in scena nel mio processo d’appello il 6 febbraio 1999: un “pentito di rango”, trafficante di droga nonchè mafioso. Esattamente 18 anni prima, nel 1981, con un mio rapporto giudiziario sugli omicidi del Capo della Squadra Mobile dott. Boris Giuliano e del Capitano dei Carabinieri Emanuele Basile, lo avevo denunciato per associazione a delinquere di stampo mafioso e concorso in omicidio, insieme con i suoi fratelli, Andrea e Giulio ed ad un’altra trentina di persone tra cui Pino Marchese, mio grande accusatore”.
“Ma cosa ha spinto Di Carlo a pentirsi ?”
“Questo “signore” volendo seguire gli usi e costumi dei rampolli della nobiltà e della ricca borghesia siciliana, aveva trascorso un lungo periodo in Inghilterra, ma invece di curare l’apprendimento della lingua inglese, si era inserito nel traffico internazionale di droga, beccandosi una condanna a 25 anni di galera. Dopo aver trascorso una decina d’anni nelle carceri di sua Maestà britannica, nel 1995 forse perché annoiato, pensò bene di dichiararsi pentito secondo le leggi italiane e tornò in Italia. Dapprima carcerato, poi, per poco, quasi libero ed infine libero del tutto, tutelato, protetto e ricompensato”.
“Di Carlo di cosa l’accusa precisamente? “
“Questo “gentleman”, e non a caso uso una parola inglese, mi accusa di aver voluto uccidere il principe Vanni Calvello di San Vincenzo, perché non ero stato invitato ad un pranzo, avvenuto a Palazzo Ganci, in onore della Regina Elisabetta e di suo marito durante la loro visita a Palermo nel 1980″. “Il dott. Contrada – dichiarò questo ‘gentleman’ – rimase atrocemente offeso per non essere stato invitato al pranzo della Regina, e incolpò per l’imperdonabile affronto, Alessandro Vanni di San Vincenzo, figlio dei padroni di casa. Pertanto il dott. Contrada giurò di fargliela pagare cara, di vendicarsi e di lavare l’offesa con il sangue”. Un’accusa farneticante, palesemente falsa, come dimostrato dalla mia difesa, perchè Alessandro Vanni non poteva e non ha mai fatto inviti per quel pranzo, che furono curati, come avviene in queste occasioni, dal Cerimoniale del Ministero degli Esteri. Devo ricordare, inoltre, che il Di Carlo e Vanni Calvello erano stati, prima del soggiorno in Gran Bretagna, soci di fatto, nella gestione di un ristorante-discoteca, “Il Castello” a San Nicola, sulla costa palermitana. Ma Di Carlo non si limitò a queste farneticazioni e aggiunse: “Io sapevo che il dott. Contrada era intimo con don Saro Riccobono e alla prima occasione gli dissi: guarda che le cose stanno così e così. Di’ a questo Contrada che non ha niente da farci pagare altrimenti gliela faccio pagare io”. E alla domanda posta dalla mia difesa a Di Carlo ‘avrebbe ammazzato Contrada qualora il suo amico Vanni Calvello fosse stato toccato’, Di Carlo rispose che non lo avrebbe fatto lui, ma lo stesso Riccobono, perché prima viene uno di Cosa Nostra e poi il dott. Contrada”.
“Cosa ricorda di quei momenti passati ad ascoltare le dichiarazioni di Di Carlo? “
“Ricordando quei momenti non so dire se nell’aula aleggiasse più ilarità o tristezza, più sdegno o vergogna. Confesso che talvolta mi è passato nella mente di scrivere una lettera alla Regina Elisabetta d’Inghilterra per dirle: “Maestà, sappia che la sua fuggevole visita a Palermo nel 1980, mi ha fatto correre un grosso rischio: diventare un assassino o un assassinato. Può rimediare a questa sua inconsapevole colpa concedendomi l’onorificenza di un Ordine Equestre, magari quello della Giarrettiera?!”. Probabilmente qualcuno potrebbe chiedermi perché racconto sciocchezze del genere. Perchè anche i non “addetti ai lavori” sappiano di quale natura sono talvolta i discorsi, anzi le farneticazioni e le fantasie di siffatti personaggi, che un giorno avranno anche le “insegne” di collaboranti della giustizia, con le loro divise e onorificenze, come i briganti anti-francesi e anti-murattiani nel Regno di Napoli dei Borboni all’inizio dell’800. “Pentiti”, che imperversano ormai da anni nelle nostre austere aule giudiziare, dove si decide della vita e della libertà degli uomini, spesso colpevoli, ma talvolta anche innocenti “.
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