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Settembre 2007: l’urlo di Contrada in cella di Gian Marco Chiocci

di Gian Marco Chiocci – sabato 15 settembre 2007, 07:00

Quattro mesi fa, giunto al capolinea di un processo-farsa, Bruno Contrada veniva condannato a 10 anni di carcere, strappato ai suoi cari, sbattuto in prigione per esser consegnato all’oblio giudiziario col sigillo del mafioso. Quattro mesi dopo, a 76 anni suonati, con ventuno patologie diagnosticate, il più bravo poliziotto antimafia crocifisso dalle menzogne dei pentiti, arranca nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere per incontrare i parlamentari Lino Jannuzzi e Stefania Craxi. «Sto male – è l’esordio dell’ex 007 del Sisde – ma non intendo crepare in galera e nemmeno piantonato dai carabinieri in ospedale. È stato perpetrato ai miei danni un delitto di Stato, che almeno mi si conceda di morire a casa».
Innanzitutto, le sue condizioni di salute dottor Contrada.
«Secondo voi come può stare un uomo di 76 anni, provato nel fisico e nel morale da 15 anni di tormento giudiziario, da arresti e scarcerazioni, da alterne pronunce processuali ed ora ridotto in ceppi perché condannato a una pena che per me, data l’età e le gravi malattie, significa l’ergastolo? Come può vivere un uomo delle Istituzioni che dopo aver speso la sua esistenza al servizio dello Stato poi dallo stesso riceva, quale “ricompensa”, l’annientamento della sua persona e la condanna a morire in prigione come un criminale? Un uomo che – come centinaia di testimoni hanno confermato in aula – ha servito le istituzioni con amor di patria, fedeltà, con abnegazione totale, e che dalle stesse istituzioni è stato poi umiliato, vilipeso, perseguito, accusato, inquisito, incarcerato, processato, condannato. Ditemelo come può stare un uomo distrutto da accuse to-tal-ment-te infondate, palesemente false, calunniose, inique, ignobili, inventate, pilotate, derivanti da odio e rancore, da invidia e perfidia, da vendetta e rivalsa, da errori e superficialità, ma soprattutto da tesi precostituite e teoremi artatamente accusatori e subdolamente argomentati.
Teorie folli che oggi tornano di moda con la solita storia dei servizi segreti deviati».
Si aspettava un verdetto così duro dalla Cassazione?
«Non ho ancora letto le motivazioni ma nonostante l’alone di sacralità che avvolge le pronunce della Corte suprema, so che questa sentenza è ingiusta. No, non me l’aspettavo. Ero dell’opinione che la Cassazione annullasse in tutto o in parte il verdetto e rinviasse per un nuovo e più approfondito giudizio nel merito. Se non altro per la incongruenza del “ragionevole dubbio” sull’intera vicenda giudiziaria costellata da obbrobri e menzogne conclamate. Io mi domando quale altro “ragionevole dubbio” può mai essere più incombente e ineludibile del fatto che, con gli stessi elementi e in assenza totale di prove contro di me, un collegio della corte d’appello mi abbia precedentemente assolto con la formula più ampia, (“perché il fatto non sussiste”) e un altro collegio della stessa corte d’appello mi abbia invece condannato per concorso esterno in associazione mafiosa».
I pentiti sono i protagonisti nefasti del suo processo. Sua moglie arrivò a rivolgersi a loro affinché raccontassero la verità.
«Mia moglie si è battuta con forza, ha preso varie iniziative, alcune rivelatesi utili, altre meno. Scrisse a molti di coloro che allora ricoprivano le più alte cariche dello stato, da Scalfaro a Violante, da Napolitano a Mancino, per far conoscere lo scempio che si compiva ai danni di un uomo dello Stato.
Se mi avesse interpellato l’avrei sconsigliata di rivolgersi a criminali diventati collaboranti per convenienza poiché sapevo che mai avrebbero accolto quel grido di dolore rinunciando alla libertà, al denaro, ai vantaggi acquisiti con il tradimento, l’infamia e la calunnia. Questo appello, la mia cara Adriana, avrebbe dovuto rivolgerlo non solo ai vari Mannoia, Mutolo, Spatola, Buscetta, Marchese, Di Carlo eccetera, ma anche ad altri soggetti che pur non inquadrati nell’ignobile categoria dei “collaboratori di giustizia” (spero non sia stato inserito un 290 tris, prevedente il reato di vilipendo all’ordine dei pentiti) hanno reso dichiarazioni al mio processo non corrispondenti al vero, spinti a far ciò da meschinità e viltà, da esigenze di carriera e d’adeguamento servile alle tesi dell’accusa.
Tra questi, purtroppo, non mancano appartenenti od ex appartenenti alle forze di polizia».
Chi sono?
«Non faccio i loro nomi per carità di patria, per il residuo senso dello Stato che permane in me e per non creare difficoltà al Giornale che mi ospita. Ma non è difficile individuarli, basta leggere gli atti processuali. Sono sciacalli, avvoltoi, vermi, che di rado mancano in determinati processi». Il suo, di processo, grida vendetta.
La verità un giorno la conosceremo?
«Sono fermamente convinto che la coltre vergognosa dell’infamia commessa, verrà sollevata. Purtroppo è più che probabile che io non farò in tempo a vedere quel giorno poiché la mia stagione di vita volge velocemente al declino.
Nei 15 anni di calvario giudiziario in tantissimi si sono mossi a mia difesa ed anche i più scettici, alla fine, si sono accodati a chi ha sempre creduto alla mia innocenza. Ma capisco anche i miei più ottusi detrattori. Non tutti avevano la possibilità di rendersi conto di come stavano le cose e ciò per vari motivi».
Quali?
«Per la molteplicità delle accuse, ripetute, con pedissequo adeguamento da criminali pentiti, senza curarsi dell’assenza di riscontri; per il ripetersi di siffatte accuse infamanti, acclarate col tempo essere calunniose, tutte tese a dare supporto a un impianto accusatorio tendente a sporcare l’immagine dell’accusato per rendere più agevole l’accettazione nell’immaginario collettivo della colpevolezza; per le testimonianze, deliberatamente o inconsciamente, malvagiamente o stupidamente, autonomamente o su suggerimento altrui, che hanno deformato la realtà; per l’obliterazione totale della mia trentennale attività di polizia esaltata da uomini dello Stato; per il recepimento acritico, passivo, incondizionato e incontrollato, fideistico, delle propalazioni accusatorie di pentiti (che ho arrestato ripetutamente insieme ai loro parenti delinquenti) enunciate per odio, rancore, vendetta o per concreta e sostanziose aspettative (mai deluse) di benefici giudiziari ed economici.
Sono tanti i motivi… ».

Vuole dire loro qualcosa?
«Sì. Coloro che hanno capito, intuito o saputo la verità non possono limitarsi ad essere amareggiati dell’esito processuale, o impietositi dal fatto che uomo, malato in carcere, sia stato gettato nel fondo di una prigione che rischia di essere la sua tomba. Dovrebbero gridare la loro indignazione per sì enorme e terribile ingiustizia.
Molti di coloro che conoscono la verità, anche tra gli “addetti ai lavori di mafia”, hanno taciuto e tacciono tuttora per indifferenza, egoismo, paura, quieto vivere, per viltà. Ciò è nella natura umana, non me ne scandalizzo dunque. Chiedo uno scatto d’orgoglio per il futuro. Non sono certo io l’unico o il primo, né sarò l’ultimo degli uomini onesti a subire le conseguenze di siffatti modi di essere».
Data la natura (mafiosa) del reato per il quale è stato condannato, lei non può lasciare la prigione se non in ambulanza, e in condizioni gravissime, com’è successo qualche giorno fa per un’ischemia. Anche nei momenti più difficili si è sempre detto fiducioso nella giustizia, la pensa ancora così?
«Sono stato condannato per un reato gravissimo, e doppiamente infamante, avendo indossato io una divisa. Mi hanno inflitto una pena talmente pesante che, alla mia età, potrebbe definirsi un ergastolo ad personam.
Hanno preso per oro colato le parole di mafiosi con 10, 20, 30 omicidi sulle spalle infischiandosene della verità che tutti ormai conoscono, mi volevano colpevole a tutti i costi e sono stati accontentati. Come posso io credere ancora alla giustizia del mio Paese.
L’umanità è variegata, esistono tante brave persone ed anche personaggi cattivi, pavidi, disonesti, sleali, bugiardi, spergiuri, ipocriti, meschini, di basso sentire. Da loro sono stato braccato, aggredito a freddo, puntato dall’alto (se corvi o avvoltoi) morsicato (se iene o sciacalli) pizzicato (se formiche rosse o zanzare).
Alcuni sono accorsi affamati al “banchetto” mettendo in azione becchi, denti affilati, pungiglioni. Altri si sono tenuti lontano, gracchiando e guaendo nell’ombra. Non ero così ingenuo da non immaginare ciò che sarebbe accaduto. Lo scrissi a mia moglie, subito dopo l’arresto nel 1992. Ma oggi che la mia vita è agli sgoccioli posso dire che allora non immaginavo la portata di questo scempio senza fine».
gianmarco.chiocci[at]ilgiornale.it