Roma, 27 aprile 1993
Adriana, un risultato almeno l’ho conseguito: la certezza che di “dolore” non si muore. Infatti:
– l’annullamento improvviso e ingiusto di 35 anni di lavoro al servizio dello Stato;
– la restrizione fisica in carcere; – l’essere strappati dalla propria casa, dagli affetti familiari;
– le calunnie, le diffamazioni, il vilipendio, il linciaggio morale di cui si è stato e si è tuttora oggetto;
– la commiserazione di tanti altri;
– il compiacimento e l’indifferenza di tanti altri;
– la perdita della dignità, del prestigio, della reputazione, della considerazione del rispetto;
– il non sentirti più nessuno;
– le offese e le umiliazioni quotidianamente subite, volute ed anche involontariamente provocate;
– la consapevolezza di essere innocente;
– l’impossibilità di dimostrare, provare, gridare l’innocenza;
– la sensazione netta dell’abbandono che, col passare del tempo, si sente sempre più intenso;
– i ricordi assillanti di tempi non certo felici ma almeno meno infelici;
– la consapevolezza delle sofferenze dei figli, della moglie, dei pochi che ti si stringono intorno;
– l’incertezza totale del futuro o di quel poco di futuro che rimane;
– il disinteresse, talvolta quasi il fastidio, per ogni manifestazione di vita esterna;
– l’assillo continuo di domande cui non trovi risposte;
– l’avvilimento o l’invilimento della vita fisica, morale, spirituale, intellettuale;
– e tante, tante altre cose mi hanno determinato, cara Adriana, una condizione umana di dolore che non sai se è vita o morte. Eppure sono vivo! Cioè di “dolore” non si muore, come ti ho detto nella premessa.
Bruno
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