Roma, 28 marzo 1994
Adriana,
ho ricevuto il tuo telegramma che tu dici essere l’ultimo inviato qui a Forte Boccea. Anche questa mia lettera può darsi sia l’ultima che ti scriva da questo Carcere. Infatti, nei prossimi giorni, poco prima di Pasqua o subito dopo, sarò “portato” giù a Palermo, in altra prigione, per affrontare altra tappa del calvario, cioè il “processo”
Immagino la scena: l’aula del Tribunale (che ben conosco per esserci stato infinite vote per accusare, anzi per spiegare con elementi e dati di fatto, perché accusavo), i tre giudici con la toga nera, i Carabinieri con la bandoliera bianca, gli avvocati Sbacchi e Milio, il pubblico ministero (forse due), il cancelliere, il pubblico, tanti spinti da curiosità e tra loro qualche volto amico. Ancora mio figlio Guido con gli occhi a me rivolti per dirmi, in silenzio: Papà, sono qui, vicino a te; anch’io sono il tuo avvocato, sono qui per difenderti, per darti forza, per far valere le tue ragioni e tante, tante altre cose”. Il tutto senza parlare, anzi parlando con i suoi occhi. Tu ed Antonio non sarete lì. Poi, vedo me, anzi, non mi vedo. Non riesco, nonostante ogni tentativo di immaginazione, a vedermi lì. Sarà un altro. Un altro uomo che, io Bruno Contrada, uomo dello Stato, vedrò come un estraneo. Non sono riuscito a vedermi, sentirmi, immaginarmi, imputato di mafia, durante i lunghi giorni e le interminabili notti trascorsi in questo Carcere, nei quindici mesi della mia carcerazione fisica e morale.
Come potrei farlo al processo?
Sarà un altro che io dovrò difendere.
Il mio assistito è un uomo colpevole di essere ancora vivo (almeno fisicamente), di un uomo che non volle scegliere la fuga, che ebbe la presunzione di poter essere ancora utile per la difesa della Società e dello Stato di diritto, di non aver compreso che dopo il successo bisogna scomparire acchè il successo stesso non venga tramutato n colpa.
Tenterò di difenderlo: anche se il dubbio, assillante e atroce, che la sentenza non sarà pronunziata il giorno…del mese…dell’anno…, ma è stata già pronunziata addì 24 dicembre 1992.
Quel giorno che fui portato via dalla mia casa, dalla mia vita, dai miei figli; quel giorno in cui fu cancellato il mio passato, fu distrutta la mia carriera, costruita rinunzia dopo rinunzia, sacrificio dopo sacrificio. Quel giorno in cui il pezzo di carta consegnatomi tra le mani era già una condanna!
Potrei scrivere a lungo per pagine e pagine: i pensieri, i ricordi, le considerazioni, le previsioni si affollano in modo pressante, talora lucido, talora confuso. Ma penso sia inutile continuare a trasferire sulla carta il mio travaglio morale ed intellettivo.
Avremo tempo ed occasione di parlarne a viva voce.
Ora ti abbraccio