8 Maggio 1993 – Alla moglie Adriana

Roma, 8 Maggio 1993

Adriana,

ieri ero affranto, quasi disperato, pervaso in tutto il mio essere da un senso opprimente della inutilità di tutto, di ogni cosa che nell’insieme costituisce la ragione di vita di un uomo. Inutilità di vedere, di sentire, di sapere, di soffrire con il corpo e con lo spirito: inutilità di essere.

Poi è venuto Guido. L’ho voluto seduto accanto a me, tenerlo più vicino con la sua mano nella mia, ascoltare le sue parole, le sue riflessioni, rendermi conto della sua presenza, quasi per un bisogno inconscio ma forte di trovare in lui – parte della mia vita – una ragione di ritrovare la ragione di continuare a vivere, sebbene in questa mia assurda condizione umana. Non mi riferisco alla restrizione della libertà, all’essere chiuso in un forte tra sbarre e cancelli: sopporterei ciò con animo forte se potessi darmene una ragione, una motivazione, una spiegazione. Ma non c’è; non è che non la trovi. Semplicemente non c’è. A me è stato tolto tutto senza alcun motivo. Tutto ciò che avevo raccolto e messo da parte nel corso della mia esistenza. E non parlo certo di cose materiali cui, come ben sai, non ho mai tenuto; parlo di cose morali, spirituali, del mio patrimonio di valori che non avrei mai immaginato o paventato che un giorno mi potessero essere sottratti.

Ormai non temo più nulla perché io non sono stato offeso, colpito o ferito; io sono stato ucciso, anzi annullato. Continuo a vivere fisicamente perché la natura persiste a far respirare ancora i miei polmoni e a far scorrere il sangue nelle mie vene e allora mi trascino.

Tu mi dirai: ma ci sono io, c’è Guido, c’è Antonio. Mi dirai: ci siamo noi che abbiamo ancora bisogno di te! Ma cosa posso darvi più io? Più nulla. Comunque ora attenderò di nuovo il prossimo venerdì.

Baci.

Bruno

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