La pennellata di Jannone – E ora che faccio? Parlo o no di Contrada? – aprile 2013
«Più leggo gli atti, più leggo il libro (nda “La mia prigione, Bruno Contrada con Letizia Leviti, storia vera di un poliziotto italiano”, ed. Marsilio), e più provo vero e proprio dolore, autentico dolore per come questo processo sia stato costruito affinchè Contrada fosse, condannato, ricercando il costante consenso mediatico facendo passare attraverso la stampa nell’immaginario collettivo, le ipotesi più aberranti: “Contrada presente sulla strage di via D’Amelio, come un corvo”, poi risultato falso. E hanno distrutto un uomo nel peggiore dei modi. Perché per un vero servitore dello Stato, l’onore conta più della vita. Come si fa a far calare il sipario su questa storia?»
Ero al telefono alcuni giorni fa con un mio amico fraterno, un giornalista, uno di quelli per bene, che non si appiattisce sulle «verità» processuali di certi processi. Uno come me. Eppure «…. lascia stare, ti fai male. Contrada oramai è sepolto. Sì è vero. Sono molti a pensarla come te, a nutrire dei dubbi, ma nell’opinione pubblica oramai è passato il messaggio principale “Contrada traditore, Contrada colluso con la Mafia” e la sentenza definitiva e la condanna già scontata sono un fatto. Non ti capirebbero, saresti inondato dal fango, penserebbero chissà perché e chissà pe cosa. Lo capisci? Lascia stare. Concentrati su altro» Eppure io – pensavo – so leggere tra le righe degli atti, so comprendere quando vi sono state forzature e pregiudizi. Niente.
Allora vi dico subito. Sono testardo? Amo andare contro corrente? No. Voglio solo essere coerente con la mia coscienza e con la mia “etica”. E etica significa anche, a volte, dire cose impopolari. La mia coscienza mi dice che, costi quel che costi, questa vicenda, il caso Contrada, non può essere oscurato del tutto. E se la lucina pallida nel firmamento dei media italiani, potrà servire a segnare la strada della riflessione per qualcuno, basterà.
Sia ben chiaro. Non conosco personalmente Bruno Contrada. Non lo conoscevo neanche di nome prima del suo arresto.
Ma quando l’ho rivisto in Tv alcuni mesi fa dire con assoluta compostezza, oramai vecchio e provato dalle umiliazioni e dal carcere, affermare solo «…a me resta poco da vivere, ma spero solo che ai miei figli ed ai miei nipoti sia restituito l’onore che mi è stato rubato», ho provato un emozione epidermica e non ho resistito: ho chiesto all’avvocato Lipera che coraggiosamente lotta da tempo per tentare in ogni modo la riapertura del processo, il numero del dott. Contrada e l’ho chiamato. Solo per esprimergli il mio umano, per quanto inutile conforto.
«….hanno anche scritto di me che ero capace di dissimulare, di apparire ciò che non ero – ricorda Bruno Contrada nel suo libro intervista – ma che solo alcuni colleghi avevano capito e cominciato a diffidare, e citano Boris Giuliano, Montana e Cassarà… colleghi se fossero stati vivi sarebbero venuti da soli a testimoniare». Ma purtroppo questi uomini sono morti sotto i colpi della mafia. Ed i vari pentiti e testimoni d’accusa si rifanno tutti ai morti, che non hanno mai potuto né confermare, ne smentire.
Mi sono imbattuto per caso, alcuni anni fa, negli atti del suo processo nel web. Un sentenza di condanna in primo grado (5 APRILE 1996), una sentenza di assoluzione in appello “perché il fatto non sussiste.” (04.05.2001). Un annullamento con rinvio alla Corte d’Appello da parte della Corte di Cassazione (12 dicembre 2002), una condanna in Appello (25 febbraio 2006) e quindi la sentenza definitiva in Cassazione (10 maggio 2005) che, con la condanna definitiva, assegnava per sempre Bruno Contrada un posto nella lista degli antieroi della nostra storia recente.
Lo bollava di infamia. Gli toglieva, non tanto quasi 20 anni della sua vita, gli toglieva l’onore. «Se tutto quello di cui mi hanno accusato fosse stato vero, avrei meritato la fucilazione alla schiena» ricorda.
Chi è in sintesi Bruno Contrada per me? La prima vittima di un momento storico, di un delirio collettivo, da cui ben pochi, all’indomani delle stragi, sono rimasti incontaminati, me compreso, secondo cui vi doveva essere a tutti i costi un livello superiore all’organizzazione mafioso militare di Cosa Nostra. Un livello di collusioni politiche, uno Stato che trattava e faceva affari con la mafia attraverso i suoi funzionari.
Processare e condannare Contrada non significava processare un uomo qualunque colluso, ma cominciare a materializzare una teoria: Cosa Nostra si era servita di alcune figure istituzionali, dell’uomo simbolo di servizi deviati – era uno stereotipo che calzava a pennello a Bruno Contrada – per legare Stato ed Antistato.
E leggendo atti, libro e notizie stampa dell’epoca, se ne ricava un’impressionante sensazione di un complotto verso un uomo che non era abbastanza potente da richiedere difese mediatiche eclatanti, ma non abbastanza debole da richiamare all’umana pietà di giudici ed investigatori.
Contrada era sacrificabile. In fondo chi era? Nessuno.
Per dirla con le parole del primo legale di Contrada, avvocato Pietro Miglio, uno dei grandi giuristi palermitani, amico personale di Giovanni Falcone, nell’accorato ed appassionato, oltre che voluminoso (1.300 pagine) atto d’appello … « Prove documentali inconfutabili, centinaia di testimoni, la inesistenza di un movente sono stati tenuti in non cale. Al documento si è opposto il carisma del Dr. Contrada, la posizione di vertice che ricopriva: la teoria del compatibile. Alle testimonianze, il rapporto di amicizia che legava il Dr. Contrada a taluno dei testi, o (peggio) la esigenza di tal’altro di mentire per chissà quali ragioni, o la capacità di “dissimulazione” dell’imputato che li avrebbe ingannati.
E così, fedeli servitori dello Stato, professionisti integerrimi, disinteressati portatori della verità sono stati considerati mentitori o, comunque, inattendibili. Alla constatazione delle dignitose (se non addirittura modeste) condizioni di vita, l’indifferenza del perché del delinquere. Dei collaboratori, invece, si è scritto tutto il bene possibile. Con una apparente e disinvolta motivazione si è tentato di compattare tutto, prescindendo anche dai pur discutibili “requisiti” che avrebbero dovuto presiedere alla valutazione della “chiamata in correità o in reità”.
Attendibilità intrinseca attendibilità estrinseca, (la sentenza ha optato per la peggior letteratura giurisprudenziale) sono state ridotte al rango di vacue formule adattabili a qualsivoglia realtà. Dell’esigenza del riscontro si è prescisso, anche in presenza di inconfutabili elementi di prova che documentavano il mendacio delle propalazioni.
In altri termini, l’assurdità del movente (perché Contrada si sarebbe venduto a Cosa Nostra?): si era detto per soldi. Ma provata l’infondatezza dell’accusa (nda il regalo di un’auto) e le sue modeste condizioni economiche ci si era ridotti ad affermare «forse per paura». La paura in uno sbirro (e Contrada era stato sbirro) è un argomento risibile.
Il credito dato a collaboratori di Giustizia come Gaspare Mutolo (nda quello del bacio a Riina), nessuno dei quali testimone di nulla, ma che riportavano quanto appreso da altri soggetti tutti defunti e quindi impossibilitati a confermare.
Gli oltre 150 testimoni della difesa, tutti appartenenti alle istituzioni, liquidati con un generico giudizio di inattendibilità in quanto «…..viziati da rapporti di stabili rapporti di amicizia o di pregressa collaborazione con l’imputato»
E’ solo una sintesi. Perché non vi è circostanza che non sia stata smontata. Tanto che alla fine ci si chiede: ma allora Contrada cosa avrebbe fatto?
La mancanza totale di qualunque verifica quando uno dei pentiti, Rosario Spatola, riferì nel 1996 – in una parentesi di pentimento dal pentimento – di accordi tra collaboratori, organizzati proprio da Gaspare Mutolo, per combinare le dichiarazioni, anche in altri processi o addirittura di accusare ingiustamente chi, come l’avvocato Ugo Colonna, era capace di smascherare pentiti. Eppure di fronte ad affermazioni così gravi e dettagliare, sarebbe bastato qualche tabulato telefonico per capire se vi fosse del fondamento nelle parole di Spatola.
«Feci due incontri: uno al centro commerciale i Granai, il secondo al laghetto dell’Eur…. Nel mese di maggio giugno 1996 mi contattò …….. tu c’hai dichiarazioni a Messina, …… questo avvocato di Messina è uno che va contro i pentiti….. è un rovina-pentiti» L’importante era lanciare una freccia, disse Spatola. Non sono necessarie accuse precise, basta il fango, una pietra nello stagno, poi le onde sui giornali, per neutralizzare l’autorevolezza di una persona. La sua immagine.
Invece niente. Indagare sui pentiti e sui rapporti con investigatori o magistrati, è uno di quei tabù che fa male solo nominarli.
contradaEppure la sentenza di assoluzione della Corte d’Appello aveva evidenziato per esempio le documentate ed evidenti menzogne di Francesco Marino Mannoia, che anni prima aveva dichiarato di aver sentito parlare di Contrada ma solo come appartenente alle forze di polizia e poi tirerà fuori quel nome riferendo una circostanza risultata assolutamente falsa, incoerente ed impossibile.
Ma nessuno ha mai chiesto a Mannoia «ma come mai ha mentito? Iniziativa sua? O suggerita da chi» Perché anche questo è un punto che bisognerà prima o poi avere il coraggio di chiarire : i pentiti mentono, spesso mentono. E quando ciò è evidente si sorvola, o lo si liquida al massimo con un «è inattendibile», sempre che non serva in altri processi. Ma quando si avrà finalmente il coraggio di riavvolgere il nastro e indagare sul perché? Quando chi mente rovinando la vita al prossimo, sarà processato duramente per calunnia?
Un avvocato solito difendere pentiti, anni fa, dopo che mi era stato affidato un nuovo pentito da interrogare, mi disse «mi raccomando, la politica, deve alzare il tiro. E’ importante per il piano di protezione».
Ma solo un giudice considerò normale indagarne uno di pentito. Il giudice si chiama Giovanni Falcone falsa testimonianza e calunnia il pentito Pellegriti per aver falsamente accusato Salvo Lima (l’uomo di Andreotti in Sicilia) di essere il mandante dell’omicidio di Piersanti Mattarella.
Ma per Falcone il processo penale era ricerca della verità. Giovanni Falcone era Giudice. Non inseguiva l’abbattimento dello Stato Borghese, non era affetto da populismo giudiziario, come ha detto recentemente Luciano Violante. Quel populismo che ha stretto in una morsa la serenità dei giudici del caso Contrada, perché assolverlo, dopo il clamore mediatico creatosi, sarebbe stato, in quel momento storico – speriamo al declino – assolvere il simbolo delle istituzioni deviate.
Ma oggi, che tutto questo sono in tanti a capirlo, io parlo al cuore di quegli investigatori, pubblici ministeri, giudici, pentiti. Pensate per un attimo, solo per un attimo, cosa significa essere tacciati di collusione con le mafie, quando ciò è in profonda antitesi con i nostri valori e con ciò per cui abbiamo scelto di vivere e chiedetevi se questo non meriti un rigore ed un profondo, profondissimo dubbio cartesiano.
Facciamo in modo che in Italia non ci siano più drammatici e dolorosi casi Contrada.
Angelo Jannone